San Biagio visse e operò a Sebaste (o Megalopolis), l’attuale città di Sivas in Turchia, città situata a 1275 m di altitudine sulle rive del fiume Murdarirmak. Per la sua posizione strategica lungo importanti vie di comunicazione, che collegavano Istambul a Bagdad e alla Persia, ha storicamente rappresentato la porta di accesso alle regioni orientali del paese. Questo ruolo svolto in passato è testimoniato dalla presenza di un ricco patrimonio artistico. Fondata probabilmente dagli Ittiti, la città, conosciuta in epoca romana col nome di Sebasteia, divenne importante centro commerciale. Nota nei primi secoli del cristianesimo per i «Quaranta Martiri di Sebasteia» (si racconta che quaranta soldati, dopo essersi rifiutati di rendere omaggio a divinità pagane, furono condannati a morte per assideramento), faceva parte della provincia romana chiamata Armenia Minor, attuale Cappadocia. Solo a partire dal sec. VII, in oriente si comincia a celebrare una festa in onore di San Biagio ed i libri liturgici bizantini l’assegnarono concordemente al giorno 11 febbraio con l’espressione: In Sebaste decollatio Sancti Blasii episcopi et martyris. Nel martirologio di San Gerolamo, nel IV secolo (347-419) non è nominato,ma in quelli europei del IX secolo San Biagio è nominato al 15 Febbraio, mentre in quelli greci è ricordato l’11 Febbraio. I pochi fatti certi sulla vita di San Biagio sono riportati nei documenti antichi frammisti alla leggenda che si diffuse a partire dall’ottavo secolo quando, tra il 961 ed il 964, nella collezione agiografica di Simeone Metafraste comparve la passio Sancti Blasii episcopi Sebastea, ossia la cronaca del martirio. Questa non ebbe né poteva avere un carattere strettamente storico; ma fu redatta seguendo uno schema precostituito e già collaudato, con evidente carattere esortatorio inteso a suscitare la devozione, ad impressionare la fantasia e ad infiammare il cuore dei fedeli. Vi entrarono pertanto molti elementi tratti dalla tradizione orale e dalla passio di altri Santi martiri. Su san Biagio, non conosciamo molto. Il nome latino, Blasius, diventato un gentilizio in età repubblicana, deriva dall’aggettivo blaesus, balbuziente, a sua volta derivato dal greco blaisos, storto. Di certo visse a Sebaste di Cappadocia, tra il terzo ed il quarto secolo; trascorse la gioventù nello studio della filosofia e della medicina; nell’esercizio di quest’ultima disciplina dimostrò abilità, benevolenza e pietà, per cui alla morte del vescovo di quella città, fu acclamato vescovo a voce di popolo, divenendo così medico delle anime e dei corpi. Dopo la firma dell’editto di Milano del 313, che concedeva la libertà di culto ai cristiani, l’imperatore Costantino assegnò a suo cognato Licinio, anche lui “Augusto” cioè Imperatore, autorità sulle regioni orientali dell’impero. Questi, una volta raggiunta la sede, si pose contro Costantino e, come mezzo di lotta politica, riaccese la persecuzione contro i cristiani che si protrasse con brevi tregue e nuove lotte fino al 325 quando Costantino farà strangolare Licinio a Tessalonica l’attuale Salonicco. Licinio dunque inviò a Sebaste il governatore Agricolao con l’esplicito incarico di scovare i cristiani e di indurli all’apostasia, pena la prigionia, le battiture, le torture e, come rimedio estremo, la decapitazione. Secondo la leggenda, durante la persecuzione di Licinio in Oriente nel 314, il vescovo Biagio di Sebaste fu costretto a rifugiarsi in una grotta sul monte Argeo non per timore della morte ma perché doveva guidare, sia pur da lontano, i suoi fedeli in quel difficilissimo periodo. Miracolosamente gli uccelli insieme con altri animali gli portavano cibo; e ogni sera si radunavano davanti alla caverna aspettando la benedizione. A volte capitava che qualche bestia ferita o malata si recasse alla grotta perché Biagio la guarisse col segno della croce. L’anno seguente cominciarono a Sebaste i preparativi per festeggiare il quinto anno di regno dell’imperatore Licinio. Era la fine di gennaio del 315: poiché occorrevano fiere per le feste negli anfiteatri, s’inviarono cacciatori al monte Argeo con funi, gabbie e altri arnesi per catturarle. Un gruppo capitò per caso davanti alla grotta assistendo a uno spettacolo inconsueto: invece di azzannarsi, quelle bestie stavano pacificamente ad aspettare che S. Biagio le benedicesse. Sconvolti dalla scena, corsero dal prefetto Agricolao che dopo aver ascoltato il racconto ordinò di catturare immediatamente il vescovo. Quando il giorno seguente, di buon mattino, i pretoriani giunsero alla grotta, Biagio comprese che era giunta l’ora del martirio e li seguì docilmente. Mentre stava scendendo a Sebaste, una donna gli portò il figlioletto che stava soffocando per una lisca di pesce conficcata in gola: la sua benedizione fu miracolosa. Da tale episodio è nato il patronato sulla gola. Proseguendo il viaggio verso Sebaste san Biagio incontrò una donna disperata perché un lupo feroce le aveva sottratto l’unico maialino. “Donna, non ti affliggere, lo riavrai presto.” Rispose il santo alla sua richiesta e subito arrivò il lupo restituendo docilmente il maiale. Questo episodio, rappresentato da vari pittori ha ispirato o meglio giustificato, insieme con la leggenda delle bestie che aspettavano la benedizione all’entrata della grotta, il suo patronato sugli animali. In realtà questo patronato, non diversamente da quello sugli agricoltori, riflette riti pre cristiani di purificazione dei campi e del bestiame durante l’inverno, come ad esempio le Feriae Sementinae. Dopo qualche giorno di carcere il prefetto Agricolao lo fece condurre in catene fino al suo palazzo e, siccome il vescovo si rifiutava di sacrificare agli dei, ordinò di torturarlo con la fustigazione a una colonna. Anche il secondo interrogatorio non servì a nulla nonostante l’orrenda tortura: i carnefici lo adagiarono sull’ecùleo, (antico strumento di tortura, una sorta di cavalletto sul quale la vittima veniva a forza tirata in opposte direzioni) slogandogli braccia e gambe. Lo straziarono poi con pettini di ferro. Anche a questo episodio si sono ispirati molti pittori. Curiosamente cardatori e tessitori lo hanno assunto come loro patrono per la somiglianza dei loro strumenti a quelli usati per il martirio del Santo. Per completare l’opera, narrano gli Atti, Biagio venne rinchiuso in una corazza rovente e poi rigettato in carcere. Fra la gente che assisteva alla tortura vi erano anche sette pie donne che avevano inzuppato fazzoletti nel sangue rimasto sul patibolo, considerandolo un sangue santo. Le stesse seguivano poi il corteo che riconduceva Biagio in carcere, cercando di lenire le sue ferite con panni imbevuti di balsami. I pretoriani se ne accorsero e le condussero dal prefetto con l’accusa di essere cristiane. Vennero decapitate alla presenza di due giovinetti che erano stati battezzati e cresimati precedentemente da San Biagio. La fantasia popolare trasformò le sette pie donne nelle sette sorelle di San Biagio.Dopo un terzo interrogatorio il prefetto ordinò che fosse gettato in un lago con un sasso legato al collo. Il sasso affondò nell’acqua mentre il santo risalì alla superficie e camminò sulle acque fino alla riva. Il giorno seguente, di buon mattino, fu decapitato insieme ai due giovinetti che aveva battezzato. I corpi di S. Biagio e dei due fanciulli furono sepolti dalla pietà dei fedeli nello stesso luogo del martirio. Era, secondo la tradizione, il 3 febbraio del 316, giorno che è diventato la sua festa liturgica.
A cominciare dal sec. XI, compaiono in occidente le prime chiese intitolate a San Biagio. L’età d’oro della costruzione di nuove chiese dedicate al Santo è legata al movimento delle crociate, dal suo primo sorgere nel sec. XI alla sua decadenza nel sec. XIV. Durante tre secoli non ci fu sovrano che ad un certo momento non facesse voto di partire per la guerra santa, non ci fu paese che non avesse inviatoi propri uomini a combattere in oriente per la cristianità, non ci fu uomo o donna che non avesse pensato di voler cooperare alla liberazione di Gerusalemme. In questa atmosfera l’agiografia bizantina, portata in occidente dai crociati, conquistò tutti gli strati sociali ed in Italia trovò largo spazio nella leggenda aurea: una raccolta di vite e leggende di Santi, scritta in lingua volgare tra il 1230 ed il 1298 da Jacopo da Varagine. Il San Biagio della Leggenda Aurea, che ammansisce le belve e confonde i potenti, mette in fuga il demonio e cammina sulle acque, risana le membra malate ed assicura la giustizia ai deboli, divenne assai popolare ed ogni suolo, offerto per la costruzione di una chiesa in suo onore, fu considerato dai più semplici e più incolti come la conquista di un lembo di Terrasanta. Per quanto riguarda la nostra chiesa di S. Biago, le prime notizie storiche risalgono al 1567 quando, visitata dal Delegato Vescovile, venne trovata chiusa, senza pavimento e senza altare. In essa non si celebrava. Il Cardinale Carlo Borromeo, visitandola tre anni dopo, non nota alcun miglioramento nel suo stato nonostante l’invito ai Parroci porzionari a provvedere alla sistemazione della Chiesa, in modo da permettere la celebrazione della S. Messa. E’ proprio in questa occasione che l’Arcivescovo accenna alle origini della Chiesa, affermando che, secondo quanto gli è stato riportato, in tempi lontani questo luogo di culto, antichissimo, era la Parrocchiale di Magenta. L’importanza di questo edificio sacro è testimoniata anche dal perseverare della consuetudine di celebrare con solennità la Festa del Santo titolare, S. Biagio, in occasione della quale si teneva un pubblico mercato annuale nella piazza adiacente alla Chiesa stessa. L’affermazione dell’antichità e della funzione primitiva e parrocchiale della Chiesa di S.Biagio, del resto già citata nel “LIBER NOTITIAE”, viene confermata anche in altre Visite ed è ulteriormente comprovata dal ritrovamento nel 1884, nell’area accanto alla Chiesa, dove ora sorge I’lstituto delle Madri Canossiane, di resti consistenti di una necropoli gallo- romana. Probabilmente, proprio per questa sua vicinanza ad una necropoli, la Chiesa di S. Biagio si trova dove un tempo sorgeva un sacello pagano, adibito al culto dei morti, che in seguito venne usato come luogo di culto con il diffondersi del Cristianesimo. In seguito ai Decreti del Cardinale Carlo Borromeo si ricomincia a celebrare la Messa nell’Oratorio “campestre” di S. Biagio, a causa della sua ubicazione un po’ periferica rispetto all’allora centro abitato. A conferma dell’attaccamento della popolazione magentina, la Chiesa di S. Biagio non viene distrutta ma è sottoposta a periodici lavori di restauro. Nel 1636 l’Oratrorio viene completamente edificato a spese dell’Abate Faustino Mazenta. A riprova dell’importanza dell’operato dell’Abate Mazenta, nella Chiesa di S. Biagio si trova ancor oggi una lapide a lui dedicata. Con un atto, rogato in data 11 luglio 1637, l’Abate Mazenta erige una cappellania perpetua in questo Oratorio, con riserva di giuspatronato a favore del più degno o del maggiore d’età dei suoi successori e discendenti in linea maschile: detta cappellania deve mantenere sempre natura laica e non ecclesiastica con la condizione che il titolare sia obbligato a risiedere e ad abitare stabilmente a Magenta, il più vicino possibile all’edificio sacro, per essere pronto a soddisfarne ogni bisogno. Già in quest’epoca, presso S. Biagio, vi è un’abitazione con un giardinetto, il cui usufrutto, unitamente a quello di alcuni possedimenti nella valle del Ticino, per volere del detto Abate è lasciato al Cappellano titolare con l’onere di celebrare quattro Messe alla settimana, compresa quella festiva. Una descrizione dettagliata e completa dell’edificio sacro viene fatta nel 1706: l’Oratorio è di forma quadrata con il pavimento in laterizi ed il soffitto a volta, dipinto nel mezzo di celeste e decorato con stelle d’oro; l’altare è collocato in una nicchia a volta e sopra ad esso c’e una tela raffigurante S. Biagio, mentre alle pareti laterali, contornate da cornici scolpite, vi sono le tele con S. Biagio scarnificato e con S. Biagio in carcere. Dalla parte dell’Epistola vi è anche un coro di noce elevato, sotto il quale si apre la porta che, attraverso un corridoio, conduce alla casa del Sacerdote titolare. Sulla parete della porta maggiore sono appesi sette quadri su tela, che riproducono le effigi di Santi, Vergini e Martiri. E’ interessante ricordare che in questo periodo veniva accordata un’indulgenza Plenaria a chi visitava la Chiesa dai primi Vespri della Festa di S. Biagio fino al tramonto del sole dello stesso giorno festivo. La Chiesa di S. Biagio, non subisce più alcun mutamento architettonico e giuridico fino al 1879, anno in cui il Marchese Giuseppe Mazenta, morendo, lascia, sia l’edificio della Chiesa sia la casa del Cappellano con l’annesso giardino, all’Ordine delle Figlie della Carità Canossiana, affinché vi possano edificare un Convento. Con la costruzione del Convento nel 1884, all’interno del quale si trova una Chiesa dedicata all’Addolorata ed utilizzata solo dalle Religiose, il luogo sacro viene chiuso al pubblico e aperto soltanto in occasione della Festa del Santo. Si deve, dunque, all’iniziativa delle Madri Canossiane l’attuale stato dell’edificio, recentemente ripulito e restaurato, come pure la continuazione dell’antica tradizione di celebrare solennemente ogni anno, il 3 febbraio, la Festa di S. Biagio e di esporre al bacio dei fedeli le sue SS. Reliquie. Ora, dunque, la Chiesa presenta una facciata, che si ripete all’estremità settentrionale del Convento delle Madri Canossiane, incorniciata ai lati da due lesene concluse da capitelli e chiusa superiormente da un timpano. Il portale d’ingresso è in stile tipicamente barocco, mentre il resto della facciata è stato rimaneggiato nell’800 durante i lavori di costruzione del Convento. Anche l’interno è in stile barocco ed ha un’unica navata, che si chiude, dopo una balaustra, con un piccolo presbiterio senza abside, sovrastato da un arco trionfale che riprende la volta a botte della navata stessa. Le pareti, ripartite da lesene, sono ricoperte da pregevoli quadri ad olio, rappresentanti scene del Martirio del Santo, attribuibili a Melchiorre Gherardini, di cui, come si è detto, si ha notizia già a partire dal ‘600. Gli unici rifacimenti sono alcuni affreschi nella volta a botte del presbiterio.
Fondatrice della Congregazione delle Figlie della Carità Canossiane fu Maddalena di Canossa di imperitura memoria, poi diventata santa. Ella, proveniente da Verona, eresse canonicamente la casa Primaria (Provinciale) di Milano intorno al 1824. A Magenta, i fratelli Antonio e Giuseppe Mazenta, entusiasti del programma e dello stile proposti da santa Maddalena e conoscendo la valenza dell’opera educativa ed assistenziale svolta dalle Madri Canossiane, misero a disposizione la chiesa di San Biagio, di loro proprietà, con gli immobili connessi e un lascito monetario, perché si potesse instaurare un nuovo convento a beneficio della borgata. Il 23 agosto 1884 l’allora Prevosto di Magenta, Carlo Giardini, pose la prima pietra dell’istituto delle Madri Canossiane che fu inaugurato il 28 ottobre dello stesso anno. Da quella data in avanti pressoché tutta la gioventù femminile magentina cominciò a frequentare l’Oratorio del convento. Negli anni che seguirono ci fu una continua interazione tra Canossiane e Magentini. Da subito le Madri si misero al lavoro per l’attuazione del programma per il quale erano state chiamate a Magenta. Questo comportò immediatamente l’apertura gratuita della casa a un migliaio di ragazze con scuola per i lavori femminili e catechesi. Al Santuario dell’Assunta, inoltre, ogni domenica, otto Madri si impegnarono per la catechesi alle donne e da questi fitti legami interpersonali si realizzarono la fondazione di una Biblioteca Popolare al femminile e l’Opera dei Tabernacoli per la manutenzione ordinaria nelle chiese di Magenta. Seguirono quindi, d’accordo con le autorità, l’Asilo, le Scuole Elementari, i Corsi Medi e il Collegio. Sempre ottima fu la collaborazione con la Parrocchia per la quale l’opera educativa delle Canossiane fu di esempio perché fosse posta l’urgenza della fondazione di un Oratorio maschile. Pochi anni dopo la fondazione dell’istituto “si diceva nei dintorni che Magenta aveva cambiato d’aspetto” perché “la popolazione magentina è povera, è laboriosa ma esigente al sommo; e forse più che in qualunque altra casa, le Figlie della Carità sono colà le serve dei poveri, nel senso più stretto della parola”. Non si dimentichi, tra le tante giovani passate dalle Canossiane, Santa Gianna Beretta Molla che maturò, nella normalità della vita oratoriana e parrocchiale magentina, la propria vocazione alla santità come medico, sposa e madre.