Nei secoli passati, come d’altra parte ai giorni nostri, erano numerose le festività celebrate nelle campagne; la fede dei nostri padri era radicata nella vita quotidiana, nelle scelte personali e persino nelle consuetudini. Ne sono una prova anche i numerosi proverbi, tramandati oralmente, legati alle ricorrenze dell’anno e alle invocazioni dei santi. La preghiera quotidiana era l’espressione immediata e spontanea della religiosità popolare. Si pregava in latino ma anche in dialetto. Non sempre c’era piena consapevolezza di quello che si diceva, ma importante era inserire l’orazione nel ritmo della giornata lavorativa. Era compito dei nonni insegnare ai più giovani i urasiòn e soprattutto al Pater, termine probabilmente derivato da “Pater noster” latino, ma sinonimo di preghiera nel senso più ampio. La pratica di preghiera più diffusa era senza dubbio quella della recita del Santo rosario. In estate, nel cortile, seduti in cerchio, nella stalla durante i mesi invernali più rigidi, la persona più anziana intonava la recita del rosario e le litanie dei santi. Ciò che contava non era la formula o il modo di pronunciare le preghiere in latino, spesso distorto, quanto il rito collettivo cui la famiglia patriarcale e i residenti nel medesimo cortile erano chiamati. Nella memoria l’immagine della recita del rosario è connessa ad alcune attività che contemporaneamente venivano effettuate: sfogliare il granoturco, preparare il burro, sgranare i fagioli. La formazione religiosa, impartita ai bambini in famiglia dagli anziani, era ampliata, in seguito, negli oratori con la guida delle suore e del sacerdote. L’oratorio era il luogo privilegiato della vita extrafamiliare e della catechesi, un impegno irrinunciabile, ogni domenica, proprio come la Santa Messa.
