L’origine dell’abitato va probabilmente fatta risalire al V secolo a.C., quando alcuni gruppi di Galli Insubri trovarono sede a Magenta, luogo strategico di confine sul Ticino. Il territorio venne raggiunto dai Romani nel 222 a.C., e Magenta si trovò ad essere l’ultima località abitata prima dell’attraversamento del fiume lungo la via consolare “ad Vercellas”, in prossimità del “vadum Tercantinum”. Sul finire del periodo romano tutta la zona adiacente al Ticino venne rinforzata a protezione del confine che, dopo la divisione compiuta da Diocleziano, venne tracciato poco lontano dal milanese. Un ipotesi farebbe derivare il toponimo Magenta dalla corruzione del termine latino “mansio”, ovvero piazza di sosta lungo la via consolare dove soldati, pellegrini, mercanti o chiunque avesse voluto, poteva sostare e rifocillarsi prima di guadare il Ticino. Con le invasioni barbariche andarono in disuso le abituali vie di comunicazione, ed il piccolo villaggio risentì, come tutta la regione, dell’affievolirsi dei commerci. Magenta ebbe il suo centro religioso nella curtis longobarda di Corbetta, che svolse un compito di coesione verso i “vici” circostanti. Col decimo secolo sul contado milanese si affermò la signoria degli arcivescovi, che a seguito dell’invasione degli Ungari diedero ai privati possessori di benefici e feudi il diritto di incastellare. Di un probabile castello magentino non è tuttavia rimasta traccia, e solo alcune testimonianze successive farebbero pensare all’esistenza, nella parte centrale dell’abitato, di una serie di edifici fortificati, circondati da un ampio fossato che diede origine, nei secoli seguenti, alla piazza centrale. Nei decenni di inizio millennio Magenta seguì gli avvenimenti che coinvolsero il capoluogo milanese, fino allo scontro con l’imperatore tedesco nel 1162, quando il Barbarossa, per intralciare la rinascita economica del comune ribelle, pensò di devastare la zona agricola intorno a Milano. Magenta, con le sue abitazioni prevalentemente in legno, venne rasa al suolo e saccheggiata. Stessa sorte toccò nel 1356 al ricostruito villaggio, quando l’esercito della coalizione antiviscontea mise a ferro e fuoco il borgo, carente di difese e ricco di vettovaglie. Nel frattempo, precisamente nel 1310, Magenta aveva avuto l’onore di ospitare tra le sue case l’imperatore Arrigo VII, bloccato nel suo trasferimento verso Milano da una forte nevicata; grato dell’ospitalità accordata, innalzò il luogo alla dignità di borgo, con privilegio quindi di tenere un presidio armato e di istituire un mercato, che dal 1410 si cominciò a svolgere, con esenzione dai dazi, ogni giovedì. Nel 1396 Gian Galeazzo Visconti donò numerosi territori magentini ai monaci della Certosa di Pavia, e a quell’epoca può quindi essere datato l’inizio della coltivazione intensiva delle campagne, in particolare della zona irrigata con acqua proveniente dai fontanili e situata nella Vallata che dal Naviglio Grande scende verso il Ticino. Passata dai Visconti agli Sforza, e da questi al re di Spagna Carlo V, Magenta venne concessa in feudo nel 1619, a titolo gratuito per remunerazione di servigi prestati, al conte Luigi Melzi; in precedenza, nel 1572, un tentativo di vendita dei diritti feudali su Magenta al giureconsulto Guido Cusani non aveva avuto buon esito. Nel corso del Seicento è da segnalare il luttuoso episodio della peste che imperversò su Milano e sul contado negli anni 1630 e 1631; anche a Magenta si ebbero vittime e non si andò immuni dalla superstizione che additava in alcuni untori i responsabili del contagio. Divenuto terreno di esclusivo dominio da parte della nobiltà milanese, che in Magenta aveva un punto di riferimento nella locale Confraternita dei Poveri, il borgo passò a partire dal 1706 agli Asburgo d’Austria, che vi regnarono, ad eccezione della parentesi napoleonica, fino al 1859. La nobiltà cittadina trovò ampio spazio per esercitare i propri privilegi, a scapito degli indifesi contadini del luogo, sempre pronti tuttavia a prestare i dovuti omaggi ai signori milanesi che si recavano episodicamente nel borgo, in occasione delle vendemmie e dei raccolti, o per la villeggiatura, favorita dal clima salubre e dalla frequentazione delle ville sul Naviglio. Nel 1743, con solenne bolla pontificia, la parrocchia di Magenta, dedicata a S. Martino, venne eretta in collegiata, sciogliendosi così dalla secolare dipendenza dalla vicina Corbetta. Con l’arrivo delle truppe napoleoniche nel 1796 Magenta, che contava circa tremila e cinquecento abitanti, chiese, senza ottenerlo, di poter essere scelta come capoluogo di Distretto; all’iniziale entusiasmo verso i nuovi venuti si sostituì gradatamente l’indifferenza, e poi l’ostilità, quando anche i Francesi cominciarono ad utilizzare le pratiche dei precedenti signori, ovvero le requisizioni per le truppe in transito e le contribuzioni straordinarie per il buon esito delle guerre europee. Nel 1814, al rientro degli Asburgo, Napoleone venne salutato senza rimpianti, e col solo merito di aver iniziato la costruzione del monumentale ponte stradale sul Ticino, destinato a cambiare la fisionomia di tutto il territorio magentino, in particolare dal 1836, con l’apertura della nuova strada e la creazione della frazione Pontenuovo. All’agricoltura cominciarono ad aggiungersi alcuni opifici, in particolare nel settore tessile (filande di seta) e caseario (fabbriche di stracchini). In questo periodo di dominazione austriaca Magenta venne inclusa nella provincia di Pavia, con grande scontento da parte degli abitanti. L’episodio che ha reso famosa Magenta anche oltre i confini nazionali è senz’altro la battaglia combattuta il 4 giugno 1859 tra gli Austriaci, che difendevano il borgo, ed i Franco-piemontesi, che tentavano di dar vita al progetto Cavouriano di indipendenza nazionale. La battaglia fu particolarmente cruenta, e vide il successo degli alleati, che si videro così aperta la strada verso Milano e la successiva creazione dello stato unitario. Prima della fine dell’Ottocento Magenta vide funzionare l’ospedale civico, eretto grazie alla generosità dei benefattori locali Giovanni Giacobbe e Giuseppe Fornaroli, a cui l’istituto venne poi intitolato. Cresciuta sempre più nel suo ruolo di centro economico della zona, Magenta venne scelta come sede di numerosi stabilimenti industriali, il maggiori dei quali fu la Saffa, e di botteghe artigiane, tra cui quella dei famosi organai Prestinari. Nel 1910, nel sesto centenario del conferimento del titolo di Borgo, Magenta chiese di potersi fregiare del rango di città, ritenendo di meritarlo per i ricorsi storici e la funzione economica svolta; allora non l’ebbe, ma l’ambito riconoscimento giunse nel 1947, con decreto del capo dello Stato Enrico De Nicola .
I ritrovamenti archeologici effettuati nel territorio di Magenta testimoniano l’esistenza di un insediamento dal periodo celtico fino all’età romana. Il suolo ha restituito agli archeologi alcuni reperti importanti, in particolare nella necropoli scoperta nel 1884 in Via S. Biagio durante l’edificazione dell’Istituto delle Suore Canossiane; qui, nelle sepolture celtiche, insieme ad oggetti metallici come anelli, coltelli e recipienti vari, sono state rinvenute alcune spade con catene metalliche per la sospensione lunghe circa 60/70 cm. contenute entro foderi realizzati da due sottili lamine di bronzo. Oltre alle sepolture celtiche, nella necropoli di via S. Biagio, se ne trovarono di provenienza romana, contenenti monete, bracciali, anellini, aghi, specchi bronzei, fibule e coltellacci in ferro, vetri e lucerne, tali da far pensare a defunti appartenenti a classi sociali agiate. Altro ritrovamento, ma meno importante, è stato effettuato presso la cascina Airoldi di Pontevecchio; a più riprese vennero rinvenuti materiali riconducibili ad una tomba a cremazione celtica del I secolo a.C. con corredo di vasi e ferri. Ma il reperto più importante relativo alla storia magentina è senza dubbio il cippo miliare di età costantiniana (328 d.C.) rinvenuto a Robecco ma anticamente collocato lungo la via romana che collegava Mediolanum ad Augusta Praetoria (Aosta) transitando per Novaria ed Eporedia (Ivrea). I miliari costantiniani avevano funzione propagandistica e non riportavano, come accadeva di norma lungo le strade romane, l’indicazione delle miglia dal punto di partenza della via lungo la quale erano collocati. L’iscrizione dice: “Caesari Constantino Maximo P.F. Victori Augusto Pontyifici Maximo Tribunicia Potestate XXXIII Imperatori XXII Consuli VII Patri Patriae Proconsuli”, intendendo così riportare tutte le cariche che Costantino in quell’anno ricopriva.