Nella ricca raccolta di vecchie fotografie di Magenta, vi sono due singolari e straordinarie istantanee che riguardano la tradizione folcloristica della Giubbiana magentina, “interrotta” intorno agli anni ’30.. Secondo la più radicata tradizione il nome deriva da “gioebia” che significa strega, collegabile anche alla parola “giovedì”. Dice infatti la tradizione che le streghe si riunivano di giovedì e precisamente l’ultimo giovedì di gennaio. La strega, rappresentata da un pupazzo, simbolo del freddo (nelle case di allora si sentiva veramente!) e della cattiva stagione, veniva messa al rogo. La Giobbiana per anni ha segnato il Carnevale dei Magentini; le sue origini si perdono nella notte dei tempi, all’epoca romana o forse a quel famoso anno 1310 in cui Arrigo VII imperatore giunse a Magenta. Ancora una volta, ecco protagonista la piazza: «[I Magentini, constatate le eccellenti predisposizioni dell’imperatore Arrigo VII, osarono chiedergli l’autorizzazione a procedere contro una vecchia megera del luogo soprannominata appunto Giobbiana, in fama di strega mangia- bambini. Presa la vecchia dunque dagli armigeri di Arrigo VII, venne trascinata in piazza a furor di popolo e, dopo un sommario processo, condannata al rogo e abbruciata seduta stante, al rullo dei tamburi”. A ricordo di questo fatto e per solennizzare la fine di un incubo, ogni anno, il primo giovedì di marzo, un rudimentale fantoccio veniva issato al sommo di una pertica e, in corteo lungo le vie del paese, veniva fatto passare davanti alle finestre delle abitazioni, in funzione di spauracchio. Indi, seguito da un codazzo di ragazzi urlanti e muniti di ogni sorta di aggeggi atti a far fracasso, il fantoccio stesso veniva portato in piazza e li dato alle fiamme simulando così la scena del rogo di tanti anni prima. Il rituale della manifestazione aveva come scopo originario l’eliminazione del male e l’allontanamento dell’inverno; a tale scopo veniva allestita una chiassosa “banda” formata anche da strumenti improvvisati molto rumorosi, come: grosse latte (tulon), lattine e pentolacce.
Deman vuna deman dò
demm i legn da fà ‘l falò
deman tri, deman quattar
sidinun ve scepi la crapa
deman cinq deman ses
sidinun va robi i verz.
L’arcaica tradizione di esorcizzare il freddo con un falò liberatorio, risalirebbe ai Celti, (o ancora precedentemente), che salutavano la primavera bruciando un pupazzo di stracci; del resto, l’ancora attuale falò di S. Antonio si rifà a queste pratiche pagane trasformate in riti cristiani. La Giubbiana, lentamente, si è modificata ed ha fuso la propria caratteristica nelle allegre baldorie del Carnevale. Nel Carnevale l’aspirazione generale, specialmente del popolo contadino, era quella di eguagliare, almeno esteriormente, anche per un solo giorno, attraverso la maschera, i grandi personaggi del tempo.